Gigi Porceddu e la fisiognomica di terracotta

13.12.2014 16:13

Nelle sue opere c’è tutta la rabbia: “per le fabbriche che chiudono a Macomer, a

Siniscola ma anche nella mia Villasor come è accaduto per lo zuccherificio, famoso per la puzza di cui si lamentava la gente, ma oggi è molto peggiore l‘olezzo della fame, la rabbia per la cattiva amministrazione della cosa pubblica, per i giovani che non possono studiare, che sono costretti a emigrare per cercare un lavoro e perché non possono farsi nel loro paese una famiglia”. Comunista? “No, mi sento più che altro anarchico. Di sinistra, ma pur sempre anarchico”.

Domanda inusuale per cominciare l’intervista di un’artista, ma con Gigi Porceddu, 45 anni, scultore di Villasor, ci sta tutta. La sua arte non è soltanto le pietre che partoriscono, i ritratti di personaggi scovati in ogni angolo della Sardegna, is cogas, le janas, i guerrieri nuragici, le madonne con il bambino, il sole. È anche denuncia politica, rivolta sempre al sociale. “L’arte forse io non so bene cosa sia, per me è soprattutto dare un’anima alla pietra, anzi, aiutare la pietra a tirare fuori l’anima che ha dentro. Mi aggrappo soprattutto alla tradizione, ai racconti dei nonni, alle sensazioni che catturo scegliendo le pietre lungo i fiumi, ammirando un nuraghe. E tutto questo fa crescere in me una rabbia. La Sardegna è la terra dei nostri padri, dei nuragici, e siamo arrivati sino all’anno 2008 rovinandola, facendola conquistare culturalmente ed economicamente da persone che arrivano da fuori. Oggi come ieri, siamo diventati una terra di vinti, noi che eravamo un popolo straordinario nella preistoria”.

Gigi Porceddu ha scritto tante lettere sulle pietre di fiume, con lo scalpello, indirizzandole ai politici in nome di un mondo più giusto. Raccogliendo consensi, ma anche critiche. “Sì, mi sono schierato per la scarcerazione di tzia Grazia Marine, condannata per il sequestro di Silvia Melis. Ha sbagliato, sta pagando, ma rimane pur sempre una donna di quasi ottant’anni”. Ha cominciato da piccolo Gigi Porceddu a trasformare qualsiasi materiale gli capitasse tra le mani: “Con il das a scuola facevo i ritratti dei bidelli e dei professori”. Dopo le lezioni il padre, allevatore, lo portava in campagna perché gli serviva una mano d’aiuto con le pecore. “Quando vedevo un albero, anche un ulivo secolare, volevo lasciare la mia traccia, intagliare la corteccia ricavando facce, visi, espressioni. È stata la vita all’aria aperta la mia scuola d’arte”.

Da tredicenne la prima opera venduta: “Avevo realizzato un fraticello, vennero a vedere le mie opere un gruppo di sardi emigrati in Svizzera, seppero di me leggendo un articolo comparso su Famiglia Cristiana”. La storia di un ragazzo ribelle che aveva le mani d’oro, capace di lavorare le pietre più dure, quelle di fiume oppure l’ossidiana: “Nessun segreto, anzi, uno solo: tratto le pietre con amore, ci parlo, le accarezzo perché voglio convincere la materia ad aprirsi con me, a tirare fuori quello che ha dentro, la vita”.

Gigi Porceddu ha esposto le sue opere in ogni angolo d’Europa, le sue sculture hanno raggiunto quotazioni importanti. Adesso il suo sforzo maggiore è rivolto a realizzare un museo dell’identità sarda. “In dieci anni ho battuto palmo a palmo la Sardegna, tutti i paesi dell’interno e delle coste, andando alla ricerca di personaggi importanti. Li ho conosciuti, ci ho parlato, li ho fotografati, ho raccolto le loro storie, compreso nome, cognome e soprannome. Sono diventati 1500 ritratti-caricature, uno studio sulle facce dei sardi che diversi Comuni della Sardegna mi hanno richiesto per organizzare un’esposizione permanente”.

È il modo di tramandare la sua arte ai posteri. “La Sardegna è la mia terra, sono orgoglioso delle mie radici ma purtroppo scopro che c’è più amore per la nostra isola in Germania che non da noi. È questa la più grande sconfitta, è per questo che voglio lasciare ai posteri i “lintus e pintus”, le facce dei sardi, le mie terrecotte dell’identità”.

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